a perenne memoria, per segnalare il valore dell’uomo, dello studioso, del rappresentante politico ed esprimerGli la sua più viva gratitudine per lo straordinario contributo offerto in tanti anni di feconda attività.
Intellettuale di prim’ordine, animatore e voce autorevole del dibattito storiografico anche da parlamentare ha saputo sposare l’impegno civile in rappresentanza e in favore della sua terra, con lo studio attento ed approfondito dei suoi problemi, come emerge con nettezza dai saggi, dalle note e dagli articoli pubblicati in un cinquantennio di attività nell’insegnamento universitario , nella vita e nella guida di prestigiose istituzioni culturali come la nostra deputazione di storia patria, nella partecipazione a convegni, seminari, incontri di studio. Aveva l’abitudine di prepararsi scrupolosamente a tutti gli appuntamenti culturali, come testimonia la massa di appunti manoscritti, schede e annotazioni raccolte nel ricchissimo archivio riordinato grazie all’amore ed alla passione della moglie Vincenza Popolizio, della figlia Maria e del prof. Angelo Bianchi. Materiali che utilizzava anche a supporto dell’attività propriamente politica, che spesso interagiva virtuosamente con la riflessione storiografica.
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Lo dimostrano le tantissime pagine da Lui dedicate proprio ai Sassi, dallo svuotamento del dopoguerra alle ipotesi di recupero della seconda metà degli anni settanta, al dibattito alimentato da visioni diverse, contrapposte, spesso non componibili. Conflitti tra visioni differenti del futuro della città, del rapporto tra insediamenti umani e vita urbana, spesso trasversali alle forze politiche.
Soleva citare l’invito perentorio di Alfonso Gatto (1951 ) a “togliere ai Sassi la loro cronica ed inguaribile monumentalità”, così come stigmatizzava la tendenza a descrivere i Sassi “come la sede storica ed ideale di una comunità saggia e felice,in grado di utilizzare sapientemente e da tempo immemorabile le caratteristiche della Murgia trasformata in una specie di paradiso terrestre,in cui le fogne a cielo aperto per lo scolo delle acque luride non erano altro che ameni ruscelletti, la mortalità infantile non costituiva un problema ed il tracoma era scambiato probabilmente con un fiore” (conclusione Per Matera si cambia, 2018)
Con lucidità in uno scritto del 2002, a dieci anni dall’inclusione nella speciale lista dell’UNESCO, parlava di
<<due modi di intendere l’originalità dei Sassi: uno artificioso e retorico, immaginifico, fermo e feticistico; l’altro, invece, più complesso e reale, che riesce a dare il senso della comunità anche nel presente e nel futuro, cioè non solo per il passato, ma anche nell’azione di recupero intrapresa che diventa per ciò stesso parte integrante della storia dei Sassi[1]>>
Un pensiero che aveva evidentemente ispirato anche la sua diretta partecipazione prima al concorso internazionale e poi all’elaborazione delle nuova legge speciale, che dovevano spianare la strada al riconoscimento dell’UNESCO.
Allargando lo sguardo alla storia regionale più recente - ancora nelle conclusioni della citata nuova edizione della Breve storia della città di Matera- rilevava che i processi di accelerazione più consistenti avevano innestato nella realtà regionale “elementi di una trasformazione profonda e non effimera”, che avevano “colto di sorpresa il vecchio mondo organizzato della società lucana”. Esprimeva la convinzione che la società locale stesse “ormai superando le vecchie caratteristiche del ristagno,dell’immobilismo e delle chiusure autosufficienti ed autarchiche” e si augurava “che la consapevolezza del rinnovamento” divenisse “opinione diffusa e incentivo a proseguire”.
Da quelle affermazioni traspariva il convincimento che si era consolidato progressivamente in lui anche nel confronto dialettico tra l’agire politico e la riflessione culturale, che spiegava insufficienze, inerzie e resistenze , ma non bastava talvolta a sconfiggerle e a superarle, come aveva potuto vedere da vicino durante la sua esperienza parlamentare , tre legislature dal 1976 al 1987, in una fase assai particolare della vita politica del Paese, che forse solo ora cominciamo a ricontestualizzare storicamente. Dall’immediata vigilia della solidarietà nazionale, che precede di pochissimo l’assassinio di Aldo Moro, uno spartiacque nella vita del Paese, indicativo di una profonda sofferenza della vita democratica non solo italiana, alla fine degli anni Ottanta, a partire dai quali la sua azione politica continuò in forme nuove. Furono, quelli anni nei quali, esaurita l’esperienza della solidarietà nazionale, il PCI tornava all’ opposizione alternativa, guidata ancora per pochi anni da Enrico Berlinguer, prima della sua repentina e commovente scomparsa.
Veniva da un’esperienza iniziale di Azione Cattolica, ove aveva maturato la sua sensibilità all’ l’impegno civile, e non ne faceva mistero; così come non mancava di sottolineare le ragioni che lo tenevano distante dalle forme storiche prevalenti del cattolicesimo politico di quegli anni (leggasi Democrazia cristiana). Esperienze che gli consentirono di scrivere un saggio interessantissimo sulla sinistra cattolica, in cui dimostra, una volta di più, di essere uno storico di razza, per aver intuito prima di altri che la questione democristiana aveva una durata giocoforza limitata, mentre quella cattolica passava attraverso la storia del nostro paese, ben prima del secondo dopoguerra e finanche del periodo risorgimentale, caratterizzando segnatamente in profondità anche le vicende lucane e meridionali.
Del tema complesso relativo al ruolo del clero nell’economia regionale, del resto, si era occupato fin dal saggio intitolato Borghesia rurale e vita economica a Matera all’inizio della dominazione borbonica[2], il suo contributo alle celebrazioni del primo centenario dell’Unità d’Italia.
Forse proprio per le particolari caratteristiche della sua biografia intellettuale seppe districarsi senza disagio tra vecchia e nuova storiografia, riuscendo a proporre nel tempo importanti elementi di revisione interpretativa su temi tutt’affatto neutri.
Si pensi all’influenza della cosiddetta scienza nuova o delle vicende del 1799 nella vita del Mezzogiorno o a quella, altrettanto importante, della presenza napoleonica al Nord. L’importanza dell’una e dell’altro erano state a lungo sottovalutate a causa anche di una prevalente lettura nazionalista, e, di conseguenza, antifrancese o come prodotto esclusivamente borghese, con tutto quello che ne conseguiva nella prospettiva marxista. Da questo punto di vista, G. L. fu persino in anticipo sui maestri con cui si relazionava nel rivalutare in positivo l’illuminismo e gli effetti della Rivoluzione francese nel Mezzogiorno, utilizzando soprattutto la lezione di Pasquale Villani, che insegnava con lui presso l’Università di Bari, da un lato quanto al lascito del riformismo, al valore della rivoluzione partenopea ed alle cause strutturali del suo insuccesso e dall’altro alla distinzione tra feudalità e nobiltà», non conosciuta nella realtà del Nord Italia, dove viene presto a mancare la prima, sopravvissuta invece al Sud almeno fino al 1806 nella forma e per molti decenni ancora nella sostanza.
Conseguenza di questa visione distorta era, secondo lui, la supposta, e, assolutamente fallace, tesi della non esistenza al Sud della borghesia: un errore clamoroso.
La borghesia meridionale, infatti, è cresciuta «all’ombra del feudo» come ha scritto in uno dei suoi migliori saggi, (ovvero il contributo alla laterziana Storia della Basilicata) in cui parla «dell’incerta e difficoltosa ascesa della borghesia rurale nel periodo feudale», dove cita proprio l’intraprendenza, per tanti versi borghese, del più celebre feudatario di Matera. Il conte Tramontano, infatti, non era affatto un mero riscossore di gabelle, ma un vero promotore finanziario, come si direbbe oggi. Organizzatore cioè degli investimenti delle risorse finanziarie provenienti dal l’imposizione fiscale nel viceregno.
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E’ suo merito incontrovertibile aver contribuito a correggere profondamente la visione tradizionale di una storia meridionale statica, sempre uguale a se stessa, fornendoci un quadro più mosso, articolato, dinamico. E applicava lo stesso metodo di lettura sia che si occupasse di Quattrocento, sia che si occupasse dell’Età Contemporanea: come quando, ad esempio, affermava come il vero problema del dopoguerra non fosse la strategia delle lotte contadine o la risposta riformatrice, ma la incapacità di risolvere in maniera ragionevole il conflitto tra città e campagna. Per lui la vera debolezza del Mezzogiorno consisteva infatti piuttosto nella mancata integrazione tra, la città e la campagna, provata dallo squallore del suburbio di Napoli e per tanti versi anche di Bari. Così, in uno dei saggi scritti per le celebrazioni del bicentenario di Potenza Capoluogo, arrivava a sostenere che essa avesse rappresentato, a fine ottocento, un modello non solo recuperabile, ma «persino esportabile di integrazione tra mondo rurale e mondo urbano», in cui i contadini, finito il lavoro nei campi, rientravano in città. Nelle stesse pagine in cui respingeva la deriva leviana, sottolineava come Scotellaro non volesse la contemplazione del mondo contadino, ma, al contrario, un vero e profondo cambiamento della condizione dei contadini. Se non proprio una rivoluzione, quindi, almeno un riformismo radicale.
Attraverso il semplice elenco dei titoli della sua produzione per così dire minore, più che in quella maggiore,(nella quale prevalgono, sin dai titoli, le esigenze editoriali), è possibile ricostruire le varie tappe tematiche del suo percorso storiografico e, allo stesso tempo, il messaggio, l’interpretazione che sempre dava degli eventi che descriveva o, ancora, delle scelte che faceva.
Ripeteva con Nitti che “l’imparzialità non esiste nemmeno per gli storici”, “a uno storico si può chiedere di essere onesto, ma non si può pretendere che sia imparziale”, perchè “lo storico è un uomo che ha i sentimenti, le passioni, le idee del suo tempo;giudicando i fatti del passato,giudica, anche senza volere, i fatti del presente”.
Lo stesso poteva dirsi per il politico. “Nessun uomo politico può essere mai completamente imparziale e forse nemmeno sereno nei suoi giudizi.l’uomo politico è sempre un combattente che deve amare e odiare. Più un uomo politico ha combattuto ed è combattivo e meno può essere sereno. Egli ha sempre nell’anima ferite che nemmeno il tempo rimargina”. E lui stesso si considerava un combattente.
Sempre aperto al dialogo, non aveva un approccio ideologico alla realtà, non si chiudeva mai in un convincimento tetragono; si apriva volentieri al confronto e talvolta ti convinceva, talvolta si convinceva. Molto di rado ognuno rimaneva sulle sue posizioni di partenza.
.Amava molto la sua città.Matera era per lui non un mero riferimento anagrafico, era la sua vita.
La sua era una materanità non provinciale, non chiusa, ma aperta al mondo. In grado di guardare a un orizzonte più vasto, tanto nelle tematiche quanto nelle relazioni. Un aspetto questo fondamentale per la comprensione di questa poliedrica personalità a cui rendiamo omaggio e che oggi restituiamo alla memoria della Sua città,come si conviene per uno dei cittadini più illustri.